La profezia scattava con l’inizio dell’anno nuovo e mi riservai di decidere all’ultimissimo momento, allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre dovunque mi fossi trovato.
Fu nella foresta del Laos. Il ” cenone ” era stata una omelette di uova di formiche rosse; per brindare non c’era champagne ma sollevando un bicchiere d’acqua fresca presi formalmente con me stesso l’impegno di non cedere per nessuna ragione a nessun costo alla tentazione di volare. Avrei viaggiato il mondo con ogni mezzo possibile purché non fosse un aereo, un elicottero, un aliante o un deltaplano.
Fu una splendida decisione e l’anno 1993 è finito per essere uno dei più straordinari che io abbia passato: avrei dovuto morirci e son rinato. Quella che pareva una maledizione s’è dimostrata una vera benedizione.
Muovendomi fra l’Asia e l’Europa in treno, in nave, in macchina, a volte anche a piedi, il ritmo delle mie giornate è completamente cambiato, le distanze hanno ripreso il loro valore e ho ritrovato nel viaggiare il vecchio gusto di scoperta e di avventura.
D’un tratto, senza più la possibilità di correre a un aeroporto, pagare con la carta di credito, schizzar via ed essere, in un baleno, letteralmente dovunque, sono stato costretto a riguardare al mondo come ad un intreccio complicato di paesi divisi da bracci di mare che vanno attraversati, da fiumi che vanno superati, da frontiere per ognuna delle quali occorre un visto; e un visto speciale che dica ” via terra “, come se questa via, specie in Asia, fosse nel frattempo diventata così insolita da rendere automaticamente sospetto chiunque si ostini a usarla.
Spostarsi non è più stato questione di ore, ma di giorni, di settimane, per non fare errori, prima di mettermi in viaggio, ho dovuto guardare bene le carte, rimettermi a studiare la geografia. Le montagne sono tornate ad essere possibili ostacoli sul mio cammino e non più delle belle, irrilevanti rifiniture di un paesaggio visto da un oblò.
Il viaggiare in treno o in nave, su grandi distanze, m’ha ridato il senso della vastità del mondo e soprattutto m’ha fatto riscoprire un’umanità, quella dei più, quella di cui uno, a forza di volare, dimentica quasi l’esistenza: l’umanità che si sposta carica di pacchi e di bambini, quella cui gli aerei e tutto il resto passano in ogni senso sopra la testa.
Imporre di volare è diventato un gioco pieno di sorprese. A far finta, per un po’, d’esser ciechi si scopre che, per compensare la mancanza della vista, tutti gli altri sensi si affinano. Il rifiuto degli aerei ha un effetto simile: il treno, con i suoi agi di tempo e i suoi disagi di spazio, ti mette addosso la disusata curiosità per i particolari, affina l’attenzione per quel che si ha attorno, per quel che scorre fuori del finestrino. Sugli aerei presto si impara a non guardare, a non ascoltare: la gente che si incontra è sempre la stessa, le conversazioni che si hanno sono scontate. In trent’anni di voli mi pare di non ricordarmi di nessuno. Sui treni, almeno quelli dell’Asia, no! L’umanità con cui si spartiscono i giorni, i pasti e la noia non la si incontrerebbe altrimenti e certi personaggi restano indimenticabili.
Appena si decide di farne a meno, ci si accorge di come gli aerei ci impongono la loro limitata percezione dell’esistenza; di come, essendo una comoda scorciatoia di distanze, finiscono per scorciare tutto, anche la comprensione del mondo. Si lascia Roma al tramonto, si cena, si dorme un po’ e all’alba si è già in India. Ma un paese è anche tutta una sua diversità e uno deve pur avere il tempo di prepararsi all’incontro, deve pur fare fatica per godere della conquista. Tutto è diventato così facile oggi che non si prova più piacere per nulla. Il capire qualcosa è una gioia ma solo se legato ad uno sforzo. Così con i paesi. Leggere una guida, saltando da un aeroporto all’altro, non equivale alla lenta faticosa acquisizione per osmosi degli umori della terra cui, con il treno, si rimane attaccati.
Raggiunti in aereo, senza nessuno sforzo nell’avvicinarli, tutti i posti diventano simili: semplici mete separate fra di loro solo da qualche ora di volo. Le frontiere, in realtà segnate dalla natura e dalla storia e radicate nella coscienza dei popoli che ci vivono dentro, perdono valore, diventano inesistenti per chi arriva e parte dalle bolle ad aria condizionata degli aeroporti, dove il confine è un poliziotto davanti allo schermo di un computer, dove l’impatto con il nuovo è quello con il nastro che distribuisce i bagagli, dove la commozione di un addio viene distratta dalla bramosia del passaggio obbligato attraverso il Free duty shop, ormai uguali dovunque.
Le navi si avvicinano ai paesi entrando con lento pudore nelle bocche dei loro fiumi; i porti lontani tornano ad essere delle agognate destinazioni, ognuna con la sua faccia, ognuna con il suo odore. Quel che un tempo si chiamavano i terreni d’aviazione erano anche loro un po’ così. Oggi non più. Gli aeroporti, falsi come i messaggi pubblicitari, isole di relativa perfezione anche nello sfacelo dei paesi in cui si trovano, si assomigliano ormai tutti; tutti parlano nello stesso linguaggio internazionale che da a ciascuno l’impressione di essere arrivato a casa. Invece si è solo arrivati in una qualche periferia da cui bisogna ripartire, in autobus o in taxi, per un centro che è sempre lontanissimo.
Le stazioni invece no, sono vere, sono specchi delle città nel cui cuore sono piantate. Le stazione stanno vicino alle cattedrali, alle moschee, alle pagode o ai mausolei. Una volta arrivati li, si è arrivati davvero. ”
Tiziano Terzani